martedì 7 Maggio 2024
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Storie di scrittori, banalità e puttane in carriera

Quando sei affamato di vita ti fai male. Va peggio se sei anche assetato di lettura. Se poi hai fame e sete di scrittura sei sulla via della maledizione. Mi spiego. Su Repubblica compare un articolo di Kate McKean, un’agente letteraria mica da poco, di quelle che decidono vita morte e miracoli dei futuri scrittori, non in Agro Pontino o nella compassata Bassa, ma nel mondo. L’articolo era illuminante. Ti sono successe cose straordinarie da raccontare? Bene, allora perché non scrivi un libro? Beh, l’agente globettrotter non te le manda mica a dire: se hai una storia da raccontare non è mica detto che tu possa diventare uno scrittore. Ancora, e questo lo aggiungo io: se pubblichi un libro mica è detto che sei uno scrittore, anche perché oggi si edita tanto ciarpame, con case editrici che dietro vil danaro danno vita a percolati d’inchiostro che era meglio che finissero direttamente in discarica. In verità, fino a qualche anno fa ero convinto che per pubblicare un libro era necessario avere qualcosa da dire. Beh, no, non è proprio così, abbracciando il McKean pensiero: magari la storia va anche scalettata, magari i personaggi invece che di carta dovrebbero essere di carne e passione, magari l’anima dovrebbe abbracciare ogni parola, ogni passo, ogni scena, ogni dialogo, rifuggendo le banalità, riscattando i termini con i sinonimi meno arcaici e barocchi (quindi con studio e sacrificio). Certo, idea trama spazio tempo cast sono basilari, poi c’è anche lo stile, che è frutto del nostro personale background, delle esperienze macerate nel cuore e nella testa, della nostra continua formazione e voglia di cultura, del nostro essere affamati e sognatori oltre gli scogli delle colonne d’Ercole. Insomma, tornando alla Kate McKean non è che tutti i lettori sono propensi a sborsare banconote e acquistare il nostro libro né recarsi in biblioteca per richiederlo, anche perché la signora sottolinea a chiare lettere che l’editoria è un’industria non votata alla meritocrazia ma che vende al dettaglio, è vero che scrivere è una forma d’arte ma è altrettanto veritiero che poi subentra la volgarità del commercio col do ut des. Certo, poi ci balena Charles Bukowski con il suo manifesto sulla scrittura, sublimata dalla poesia ‘E così vorresti fare lo scrittore’: se non ti esplode dentro, se non cerca di fuoriuscire dalle viscere, se non sei sicuro che esca come un ruggito, lascia perdere, non sei ancora pronto. Certo, poi c’è chi crede che scrivere sia sinonimo di pubblicare un romanzetto scritto nel giro di sessanta giorni, immaginando che quell’opera vomitata esercitando alla fine il mestiere più antico del mondo (sì, anche nell’acculturato campo della narrativa si va a letto con l’editore di turno o con l’uomo di spettacolo famoso per cercare una sponda) apra le porte del paradiso letterario, mentre invece schiude il varco della mediocrità senza ritorno. Ve la ricordate una delle scene più belle de ‘La grande bellezza’?: siamo su un terrazzo romano e Jep Gambardella, il re dei mondani, una sola ma eccezionale opera all’attivo, demolisce Stefania, egocentrica scrittrice radical chic, amante più dei talami piuttosto che del lavoro dello scrittore, autentica narcisista che si smarrisce a elencare opere mai lette da nessuno. Ebbene, ha ragione la Kane, se non si è strutturati non si può scrivere un libro nemmeno se si possiede un’idea carina, ma ha ragione anche il vecchio Chinaski: se l’anima la vendi e non la coltivi, lascia stare. Fa altro.

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