sabato 18 Maggio 2024
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Un caffè con Eduardo Galeano, che ha raccontato gli umili del mondo

Il ricordo del grande scrittore e giornalista uruguagio Eduardo Galeano, a 5 anni dalla sua scomparsa, appassionato di storia, politica e calcio.

“Ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio”. Me lo immagino così Eduardo Galeano, con le gambe distese sotto un tavolo del Cafè Brasilero a Montevideo, un cafè con leche y una medialuna, poi un Toscano incassato tra le labbra in perfetto equilibrio mentre racconta storie impossibili.

Già, impossibili per noi ‘occidentali’ o ‘europei’ o ‘yankees’ o ‘gringos’. Poi, nel momento in cui vai in SudAmerica scopri che esiste un continente che è un altrove letterario, colmo di contraddizioni, di storie vere che sembrano uscite dai romanzi e di romanzi che ricalcano fedelmente storie reali. E sì, perché in SudAmerica le storie ti sbattono addosso, è sufficiente che cammini per un’avenida o una rambla e ti imbatti in personaggi e vicende che credi fantasiose.

A Montevideo il tempo sembra essersi fermato ai tempi della dittatura costituzionale (avete letto bene…), quando il potere militare manovrava il parlamento. Nell’autunno che entra la capitale dell’Uruguay appare un amore nostalgico, con ricordi fissati su pagine ingiallite. A Eduardo Galeano forse non gli piacerebbe l’Uruguay di questo momento. No, non è solo per il campionato di calcio sospeso, ma è per i diritti dei più deboli che vengono ciancicati dall’indifferenza, soprattutto in un momento in cui il più fragile è ancora più indifeso e il più ricco è tutelato. Il Covid-19 non fa sconti a nessuno, ricchi e poveri, umili e arroganti, ma intanto nella guerra del tempo se ne va chi è più esposto. In nome della pandemia il governo ha chiuso le frontiere ma ha serrato anche il cuore per paura del contagio, sono lontani i giorni della presidenza di Pepe Mujica, oggi comanda il Partito Nazionalista del presidente Louis Alberto Lacalle Pou, con le sole associazioni di volontariato a provvedere all’esercito di disperati.

Eduardo Galeano, giornalista e scrittore uruguagio, è scomparso il 13 aprile del 2015, quando eravamo in pieno aC (che non sta per ante Christum ma per ante Covid-19) e in un momento come questo avrebbe continuato a lanciare anatemi sul consumismo sfrenato che aveva colpito il sistema economico e si sarebbe seriamente preoccupato dei campionati di calcio sospesi, perché va ricordato che tra le cose più frivole il calcio è la cosa più seria. Ma poi avrebbe denunciato le storture, le contraddizioni, le ingiustizie del mondo.

Passo indietro. Chi è Eduardo Galeano? Ho scritto chi è seppure è morto 5 anni fa. Nel senso è presente tra di noi perché ci ha lasciato delle eredità testamentarie uniche.  In un momento di incertezza come questo, in un momento in cui pare che la sabbia della clessidra scorra più lentamente, in un mondo che si prepara a cedersi alla voluttà porcina di oligarchi senza scrupoli rileggere alcuni suoi capolavori ci arricchisce. Vi consiglio per chi ama il calcio e la vita ‘Splendori e miserie del gioco del calcio’, un libro che è uno spaccato sociale e politico che come un pendolo abbraccia lo sport più popolare del mondo. E poi immergetevi nella lettura ‘Le vene aperte dell’America Latina’, un saggio storico in cui Galeano cerca di fornire risposte sul perché una terra così ricca sia invece così ostaggio delle multinazionali occidentali, e ‘Memoria del fuoco’, un viaggio nella storia di tutta l’America con le sue facce e le sue maschere. Giornalista e scrittore, è fuggito dall’Uruguay quando i militari presero il potere con un colpo di Stato, rifugiò in Argentina, da dove scappò nel 1976 quando salì a governare la junta militare di Videla, riparando in Spagna. Tornò poi in Uruguay nel 1985, quando la dittatura militare aveva terminato il suo ciclo.

Lui che ha sempre amato la verità, che ha odiato il contrasto perenne tra libertà e giustizia, che ha combattuto con la penna le dittature fantoccio del centro e sud America quando erano spinte, sollecitate e architettate dalla Cia e dalle multinazionali, se n’è andato il 13 aprile 2015 per un bastardo cancro ai polmoni, dopo averli ostinatamente e deliberatamente masturbati con catrame e nicotina. Ancora:

“Come tutti gli uruguagi, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo; durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese”. Ineguagliabile.

Era nato a Montevideo Eduardo German Hughes Galeano nel 1940, aveva il pallone nel sangue, ma era assurto alle cronache letterarie (e non solo) mondiali nel ’71 quando pubblicò Le vene aperte dell’America Latina, un classico sulla tragedia di quei luoghi d’incanto, sfruttati ignobilmente dalle Repubbliche delle Banane (sintesi della United Fruit, antenata della Chiquita) per arricchire un Occidente opulento (e imperialista) che invece di sostenere il fratello minore lo soccorre senza aiutarlo a crescere. Siamo nati e cresciuti nell’Italia del boom, degli aiuti economici alle zone depresse del Centrosud, dell’Italia stretta nella morsa del Terrorismo, del sospetto dello Stato parallelo, dei depistaggi e dei segreti stipati in un archivio senza fine, delle eterne ecomafie dei colletti bianchi, siamo nati e cresciuti nel e col mito degli yuppies e degli anni ’80, del consumismo e della borghesia che spinge sulla scala sociale ma poi quando conosci il Sud del mondo, se hai un cuore e pulsi di emozione, non puoi non abbracciarlo, condividerlo, amarlo, inspirando un percorso al contrario, confessando prima sottovoce poi al megafono che la tua ricchezza non può dipendere dall’altrui povertà.

Se Galeano, con straordinario coraggio, aveva naturalmente odiato le dittature che impoverivano il proprio popolo e per cui ha rischiato la vita vivendo in esilio, allo stesso tempo aveva aspramente criticato quelle congetture utopistiche della sinistra, tacciandola, nel suo spirito visionario, di non aggiornarsi al mondo che evolve. È il suo predicare le ragioni degli altri che si può crescere, capire, sconfessare, questo è dannatamente e semplicemente vero.

“È così, solo comprendendo le ragioni degli altri, soprattutto gli infelici, che forse si realizza un mondo migliore”. Pensieri che collimano con quelli di un altro grande filosofo uruguagio, ex guerrigliero Tupamaro, che è diventato di recente presidente della Repubblica, José Mujica.

Ecco di Galeano ho sempre amato quel candore, quella sana ingenuità che sta alla base (solida) di chi è un visionario reale e imparziale, obiettivo fino alla morte, nel segno di una coerenza che ancora sfugge alle più potenti alcove della cultura (letteraria) italiota. L’ho conosciuto, come tutti, nelle interviste sui quotidiani e sui libri, su quel libro che è diventato uno status per chi ama il fùtbol (e non football), quel Splendori e miserie del gioco del calcio che ti riconcilia con lo sport più bello del mondo, oggi invaso e dilaniato da conti segreti e pastette. Con quel libro tra le mani capisci che sei come giochi al calcio, che un Paese è tale, che il calcio è linguaggio universale e uno straordinario veicolo di socializzazione utilizzato talvolta subdolamente come consenso delle masse (vedi Fascismo e dittature latine, tra cui il vergognoso Mundial di Argentina 78 o la farsa del Mundialito in Uruguay del 1980). Galeano ha raccontato il calcio degli umili e dei poveri, dei Varela e dei poeti maledetti, regalandoci pagine indelebili di pedatori misconosciuti e altri assurti all’Olimpo, con un’ironia e un sarcasmo irraggiungibili.

La prossima volta guarderò fuori dalla finestra del Cafè Brasilero, mi immergerò nei colori della Ciudad Vieja, sorseggerò cafè con leche y una medialuna, e continueremo la nostra chiacchierata.

¡adiós, mi amigo!

 

 

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