martedì 14 Maggio 2024
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Cosa ci manca di più della libertà? Le gioie della comfort zone

Cosa ci manca di più nella restrizione della libertà ai tempi del coronavirus? Banalizzando, la libertà, ma anche quei luoghi eletti a comfort zone dell’anima.

Mi intervista il filosofo Mauro Cascio per il sito www.iniziativarepubblicana.it, mi chiede la maggiore sofferenza patita in questa vita da libertà vigilata ai tempi del Covid-19. Beh, la libertà, banalizzando. Ma se dovessero chiedermi cose che non superano le dita di una mano, dove molti arrivano a contare, ecco che la risposta è che mi manca da morire il clima della comfort zone. Sì, lo so, per chi è abituato metaforicamente e fisicamente ad andare oltre le Colonne d’Ercole e i bastioni fiammeggianti di Orione potrebbe suonare come un atteggiamento remissivo, ma non è così, anche i cani randagi hanno necessità di rigenerarsi, leccarsi le ferite, concentrarsi, stendere cronoprogrammi e disegnare architetture narrative, momenti di riflessione costruiti per vivere nuove mirabolanti avventure.

La comfort zone cui faccio riferimento è quella che l’illustre John Fante chiamava la Confraternita dell’uva, un ritrovo che a a Sabaudia porta lo stesso nome e cognome, eletto a domicilio anche da Andrea G. Pinketts nei suoi rari spostamenti da ambiti cittadini e metropolitani. Per intenderci, un luogo per gourmet, per picari e gitani, per personaggi sghembi, una sorta di locanda degli uomini perduti. E ognuno ha la sua, quindi una locanda che ti schiude l’anima, una location equiparata per suggestione a quelle vinerie piazzate ai confini del mondo, sulle punte di Capo Horn o di Capo di Buona Speranza, o in luoghi sperduti come Manaus e Longyearbyen.

D’accordo, sfuggire dalla comfort zone deve essere visto come un obbligo per chi vive, perché restare ovattati negli agi e nelle sicurezze crea assuefazione, limita la crescita e le responsabilità, non ci spinge a varcare soglie interiori, fisiche e geografiche. Ma in tempo di Covid-19 superare le colonne di Gibilterra è proprio recarsi nella straordinaria magia della Confraternita.

Sorvolo su quella fauna umana che frequenta la locanda, perché per farne parte non è prevista l’inclusione ma l’esclusione. Certo, non soffro di solitudine, perché la solitudine non è assenza di persone fuori di sé ma assenza dentro di sé. E a tal proposito John Fante scriveva cose sagge.

 

“L’uomo di ingegno si riserva alcune prerogative, ad esempio la scelta dei propri interlocutori”.

Quello che mi manca è sì quel coacervo di anime errabonde che frequentano la Confraternita, ma soprattutto i piatti rivoluzionati dallo chef dai capelli anarchici Giampaolo e quelle prelibatezze scoperte dall’oste scout Sandro. Vagheggio di crostini benedetti da un mix di funghi pioppini, guanciale di Mora romagnola, pancetta di Nero delle Nebrodi, elemosino nei sogni un piattino di bresaola di fassona e di Serrano riserva 6 anni. Anelo a mostarde ricercate che accompagnano formaggi di capra della Valsassina, quelli d’alpeggio alla menta, i pecorini alle vinacce o barricati al fieno. Tutte bontà divine, benedette da un calice mediterraneo e selvaggio di Stupore, della cantina Bolgheri, tanto per santificare un luogo come Castagneto Carducci comanda. Perché è vero che la vita è una farsa, ma tornando a John Fante ci sono anche altre verità apodittiche.

 

“Vivere era già abbastanza difficile, ma morire era un compito eroico”.

Sì, lo confesso, mi manca la comfort zone. Il countdown con vista 4 maggio è cominciato.

 

 

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