martedì 14 Maggio 2024
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Generalizzare crea confusione. La storia della e al contrario

La curiosità resta l’anima di chi scrive. Così mi imbatto nel tema scelto da Gabriele Lodetti per superare lo scoglio della maturità. Il luogo è il liceo Plinio Seniore di Roma, e lo studente nello svolgimento del tema d’italiano, quello d’attualità, ha utilizzato la #schwa. Geniale per l’intuizione ‘letteraria’, ma inutile e pleonastico se conformato al linguaggio parlato e scritto. Intanto si è beccato un bel voto, ma anch’io glielo avrei dato, seppure della schwa condivida zero. A parte che già utilizzando l’articolo femminile davanti al termine schwa commettiamo una scorrettezza; perché?, chi ci autorizza a declinarlo al femminile? Ecco, questa è una delle tante follie del politicamente corretto, del generalizzare a tutti i costi in nome dell’inclusione. Ma andiamo –faticosamente- con ordine. La schwa è la lettera ‘e’ capovolta che oggi si utilizza per essere più inclusivi, nient’affatto discriminatori (?!), abbracciando così in un sol colpo grafico il genere femminile e maschile, rifiutandone quindi la sua identificazione. E sì, perché la ‘scevà’ si utilizza quando parliamo con una persona di cui non sappiamo la sua identità di genere (ma è così straordinariamente importante sapere l’inclinazione sessuale di una persona? Io parlo con una persona per i temi affrontati, poi nel discorso se usciranno orientamenti sessuali, religiosi, partitici, ideologici, calcistici sopravvivrò lo stesso). E no! La schwa si usa anche per tenere conto di altri elementi, come età, etnia, aspetto fisico, stato sociale o disabilità. Insomma, non se ne esce.
Tutto nasce dalla volontà di non essere identificati, soprattutto, però, sessualmente. Continuando a ragionare, e senza generare polemica, però, la dicitura #Lgbtqia+ mi manda più volte nel panico, perché provo a capire, mi ostino, sempre nel cercare di orientarmi meglio per non commettere gaffe, per non calpestare nessunissima sensibilità, anche perché credo poco nelle divinità, meno nei santi, tanto nella Natura e molto negli esseri umani, senza discriminazioni di sorta, ivi compresa l’appartenenza alla fede calcistica. Divago, scusate. Mi manda nel panico l’acronimo Lgbtqia+ perché si arricchisce, appena mi distraggo, di una nuova lettera e ho il terrore di non saper tradurre l’aggiunta recente, così, sempre spinto dalla divina curiositas, ho imparato il significato della i e della a ma anche della + e soprattutto che vi appartiene tutto l’universo (s)conosciuto. Tranne il termine eterosessuale. Ach, che discriminante, questa. Vabbè, andiamo avanti, che il punto è un altro. Se ci si impegna a caratterizzare e puntualizzare (una volta si diceva sbrigativamente ‘mettere i puntini sule i’) ogni aspetto per l’orientamento sessuale perché poi dobbiamo affidarci a una generalizzazione nell’utilizzo della schwa, come un ‘neutro’ qualsiasi? Mi ricorda quando a scuola, quindi nel pieno della fase adolescenziale, ognuno di noi si sentiva ‘diverso’ ma per farsi accettare dagli altri si conformava, indossando un bomber, un chiodo, una maglia oversize, etc. Un classico che fa sempre sorridere. Tornando a creare dei clan. Ah, ma quanto siamo animali sociali e quindi sempre diretti a creare una comunità. Aristotele docet, altro che acronimi, individualismi unicamente unici e generalizzazioni rovesciate. Altro che un’unica grande famiglia, ma tante piccole divisive famiglie.
Vabbè, divago. Resta la semplice curiosità su tutto. Come alla voce curiosità resta la storia della schwa. Così, andiamo a lezione sulla pronuncia fonetica: il simbolo e al contrario, quel suono schwa, è uguale alla “a di about”. Insomma, è quel simbolo utilizzato in diverse lingue scritte nell’alfabeto latino, chiamato “scevà” (o schwa) o “e capovolta”, cioè un grafema presente nell’alfabeto fonetico internazionale. La sua utilità? Repetita iuvant: permetterci di parlare con una persona di cui non conosciamo l’identità di genere, o che sappiamo non riconoscersi nei due generi uomo-donna. Attenzione, per facilitarci, al posto della e rovesciata si può utilizzare anche l’asterisco eliminando la lettera incriminata finale oppure la @, indicando così un genere neutro, non binario, ossia né maschile né femminile. Che fatica, eh.
Ancora, ci viene in soccorso l’Accademia della Crusca: per loro la schwa non si deve usare. Perché crea “problemi grafici, nel parlato, difficoltà per le persone con dislessia e opacità tra plurale e singolare”. Andiamo ancora più a fondo: la genesi proviene dal termine grammaticale ebraico sheve, che può essere tradotto con «insignificante», «zero» o «nulla». Oh, cavolo. Comunque, per arrivare al sodo, quando si entra in un salone dove c’è una moltitudine di gente si dirà “Buonasera a tutt*”. Facile da scrivere ma difficile da pronunciare (lo dice la Crusca, mica io). Una chicca digitale: se siete al pc per scrivere la e al contrario digitate con la tastiera il codice 0259 e, subito dopo, premete la combinazione Alt + X, ottenendo la tanto sospirata schwa.
Ah, mi chiedete come la penso sull’uso e sull’incisività della schwa? Non l’avevate capito? Mi auguro che faccia la fine del corsivoe. Ne ha la stessa utilità. Crea confusione. Generalizzare crea confusione.

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