martedì 14 Maggio 2024
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La storia del Nagorno Karabak profuma molto di letteratura

La questione dei migranti con lo sguardo del governo Meloni rivolto alle rogne create da Saied, il leader tunisino che ora dice che rifiuterà i soldi europei, più il conflitto russo-ucraino che somiglia sempre più a una sorta di stallo messicano, più la situazione altalenante tra la Cina e Taiwan, ormai sotto una morsa del Celeste Impero. Può l’Europa, e l’Occidente in generale, preoccuparsi di questioni marginali, come ad esempio di uno Stato che sembra abbia il nome di una parte di mappa di Risiko? No, certo che no. O sì, ma solo all’inizio, poi si torna alle criticità di sempre.

Così, “Siamo le nostre montagne addio”. Addio Stepanakert. Addio Nagorno Karabak. E già. Il 1° gennaio 2024 di questo Stato “tutte le istituzioni e organizzazioni governative” cesseranno di esistere. Una resa che sembra uscita da un b-movie girato durante la Guerra Fredda o appena fresca di stampa vomitata da ‘Segretissimo’, la collana Mondadori riservata agli amanti delle spy story.
Ne abbiamo sentito parlare insistentemente in questi giorni quando l’esercito azero ha oltrepassato i confini e ‘invaso’ lo Stato Nagorno Karabak, che si era autoproclamato tale dopo la dissoluzione dell’Urss, allontanandosi dall’Azerbajan cui apparteneva dal 1923.
Ma altrettanto velocemente siamo tornati a occuparci di situazioni ‘drammatiche’ per noi occidentali: l’aumento dei carburanti, l’inflazione che alza i prezzi del carrello della spesa, la paura che l’AI ci possa soffiare il lavoro, l’ennesima promessa del ponte sullo Stretto, l’amante invadente, la cara retta universitaria dei figli, la squadra del cuore che zoppica in serie C.
Già, il 19 settembre l’esercito azero in nome di riordinare l’assetto costituzionale ed eliminare frange terroristiche separatiste hanno aperto il fuoco. E il piccolo stato caucasico, 150mila abitanti di cui la metà armena, ha alzato bandiera bianca: infatti, il presidente Samvel Shakhramanian non ci ha pensato su, stanco forse dei 200mila morti causati dagli anni ’90 su entrambi i fronti, ha desistito senza l’aiuto bellico della Russia, impegnata nel conflitto ucraino, e dell’Armenia, evidentemente a corto di armamenti. Certo, la comunità internazionale riconosce quell’area come territorio azero. C’è poco da aggiungere. La repubblica degli armeni dell’Artsakh si è resa autonoma dall’Azerbaigian con l’appoggio della madre patria Armenia e la protezione di Mosca nel 1991. Una repubblica de facto, non riconosciuta dall’Onu, ma sì dalla Transnistria, Abcasia, Ossezia del Sud, nomi che richiamano più alla letteratura dell’oltre cortina di ferro che alla geografia. Compreso il monumento simbolo di queste parti, “Siamo le nostre montagne”. Costruito in tufo, raffigura un uomo anziano e una donna che emergono dalla roccia, a rappresentare la gente delle montagne del Nagorno-Karabakh, senza particolari fattezze.
Ma facciamo un minimo di sintesi.
Un territorio conteso sin dagli inizi del Novecento e che Stalin, dopo la rivoluzione russa del 1917, assegnò all’Azerbaigian. Dopo la rivoluzione russa del 1917, il Karabakh fu inglobato nella Federazione Transcaucasica, che poi si divise tra Armenia, Azerbaigian e Georgia, con decisione di Stalin, sebbene fosse abitata dal 98% della popolazione armena, di assegnarla all’Azerbaigian. Però, la zona è sempre stata contesa tra azeri e Armenia, che si sono affrontati già tre volte in sanguinosi conflitti: la prima volta nel 1991, dopo la frantumazione dell’Urss, con la nascita della Repubblica di Artsakh, facendo leva su una legge sovietica allora vigente. Dopo aver mietuto 30mila vittime, la guerra si è conclusa con l’accordo di Bishkek, capitale del Kirghizistan, nel 1994.

Le ostilità sono poi riprese nell’aprile 2016: l’esercito azero ha avviato una massiccia offensiva contro il territorio, che ha causato centinaia di morti in soli quattro giorni, sedati dalla forza diplomatica russa e statunitense. Ma anche lì la pace fu di breve durata, tanto che il 27 settembre 2020 l’Azerbaigian ha lanciato una serie di attacchi missilistici causando la guerra dei 44 giorni, terminata con la ripresa del controllo azero su buona parte della regione. Putin, che aveva garantito la pace, aveva inviato 2mila soldati nel Nagorno Karabakh per mantenere la pace.
E torniamo a oggi. Erevan ha il terrore di una pulizia etnica azera su quei territori, anche se la capitale armena ha criticità interne, poiché la popolazione non ha certo digerito l’immobilismo governativo, che si è tradotto in un’assistenza passiva dei profughi che dal Nagorno Karabakh si stanno trasferendo in Armenia. Quindi, sono scoppiati tumulti in città, con tentativi dell’assalto al palazzo governativo e all’ambasciata russa.
Non resta che assistere passivamente, con in sottofondo la musica dei System of a Down che al monumento ‘Siamo le nostre montagne’ non possa accadere nulla di grave.

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