sabato 4 Maggio 2024
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L’allenatore, i tifosi e i giornalisti

È sempre un duro mestiere. O meglio è il gioco dei ruoli. Ma a volte i concetti vanno ribaditi, perché repetita iuvant.

L’allenatore, in qualsiasi sport, è il primo a pagare quando il gruppo va male. Ne fa le spese lui, da buon comandante è sacrificato in nome della ciurma. Il tifoso, che non riceve invece nessun stipendio, segue la propria squadra sempre, con il freddo, la pioggia, la canicola, esulta anche per uno scialbo 0-0 in mezzo alla nebbia nel più perfido campo di periferia perchè il punto guadagnato per lui è una mezza vittoria e gli cambia il colore della settimana. Il giornalista fa il cronista e l’opnionista, a seconda del momento e del pezzo da scrivere, non è ammesso che faccia il tecnico né il tifoso.

Primo e secondo inciso. Il giornalista non può essere amico dei giocatori (e né del tecnico) perché quando descrive il match inevitabilmente diventerebbe indulgente nel tracciare giudizi e opinioni, sarebbe influenzato, ergo non sarebbe oggettivo nella sua analisi. Nè il cronista può sostituirsi a un tecnico, suggerendo la formazione o avvelenandosi se l’allenatore non manda in campo quel giocatore per cui lui stravede: mai conosciuto un tecnico che lascia in panca giocatori in salute o che possono risolvergli con un tocco la partita.

Ma torniamo ai ruoli del tecnico, del tifoso e del giornalista. Questo spunto di riflessione mi viene quando domenica in sala stampa il tecnico del Frosinone Eusebio Di Francesco ha risposto a un’osservazione di una collega sui fischi del pubblico a Cheddira, reo di aver fallito l’ennesimo appuntamento col gol. DiFra si è un po’ rabbuiato ed ha lanciato un messaggio chiaro: “i tifosi chiedono impegno ai giocatori e Cheddira è uno che si impegna, io difenderò i giocatori fino alla morte sotto questo aspetto perché conosco i sacrifici che fanno. Poi, ci sono altri discorsi, ma quelli spettano a me e non ad altri”. Be’, no, non è proprio così. E infatti ritornano i ruoli citati prima. L’allenatore, nelle vesti del pater familias, difende i suoi davanti a tutti, poi i panni sporchi li lava dentro lo spogliatoio (al contrario di Mourinho, che ama sputtanare i suoi deresponsabilizzando se stesso, come visto a più riprese nella sua parentesi giallorossa), alzando la voce, impartendo rimbrotti e scazzando con qualche indisciplinato o lavativo. Il tifoso, quello che paga il biglietto e che segue per una disperata passione quei colori sin dalla nascita senza un ritorno economico, ha il diritto di criticare, talvolta esagera e inveisce nel Colosseo contemporaneo che sono gli stadi, quindi osanna un giocatore che lo fa esultare e maledioce fino alla quarta generazione il centravanti che cicca il pallone davanti alla porta. Sempre domenica, sul 2-1 per i ciociari, il portiere Turati si è travestito da X-Men e ha compiuto due autentici miracoli salvando capra, cavoli e punti, così i tifosi, che giustamente fanno i tifosi, sui social hanno fatto rimbalzare peana sul numero uno ciociaro, bersagliato per le ultime prestazioni un tantinello opache, urlando che “basta, Turati non si critica”. Bene, è il ruolo dei tifosi, che sostengono la squadra, nella buona e cattiva sorte. Il giornalista ne ha un altro: quello di applaudire Turati se compie un intervento da portiere, di criticarlo se invece compie un’azione da concierge.

Permettetemi ora il terzo inciso: sempre nella sala stampa dello Stirpe il tecnico cagliaritano Ranieri sul gol d’autore di Soulé ha ammesso che “quando vedi un gol del genere capisci che sei davanti a un campione e allora lo applaudi. Questi sono gesti tecnici che da soli valgono il prezzo del biglietto”. Ecco, l’oggettività di pensiero. A cui sono obbligati ad attenersi i giornalisti. E quindi, con buona pace degli allenatori che difendono alla morte i propri giocatori, con buona pace dei tifosi che vivono le gesta della propria squadra sotto l’onda delle emozioni declinate ai risultati, i giornalisti hanno l’obbligo di descrivere la cronaca, utilizzando il loro stile, di commentare, di colorare attraverso il proprio sentire, quello cui assistono. In nome dell’obiettività.

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