martedì 14 Maggio 2024
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Sergio Tavčar ci racconta lo sport nel conflitto balcanico

Ha senso ancora oggi parlare di confini quando con un touch e un clik siamo dall’altra parte del mondo? Alla fine troviamo la risposta in uno degli aspetti più affascinanti della globalizzazione, e cioè che i limiti forse sono soltanto dentro di noi. Aspetto, questo, inevitabile per comprendere meglio il conflitto balcanico. La guerra nata durante la disgregazione della Jugoslavia viene affrontata con la consueta oggettività di pensiero che dovrebbe spettare a ogni giornalista, e Sergio Tavčar, passaporto da uomo di frontiera e quindi gitano di indole per comprendere con l’occhio dell’imparzialità i fatti che accadono e si rincorrono, ripercorre con lucida linearità ne ‘Lo sport e il confine del mondo’ (ed. Mattioli, pp 110, euro 10) quel conflitto nel cuore di un’Europa distante, assonnata e, a distanza di anni, sempre più colpevole.
Sgomberiamo il campo dagli equivoci. Sergio è di origine, carattere ed estrazione slovena, ma ha passaporto italiano, essendo nato a Trieste, ha lavorato una vita come giornalista e inviato per Capodistria, l’emittente televisiva che odorava di straniero, quasi esotico, per chi s’affacciava al tubo catodico sbirciando ‘cose’ che avvenivano al di là dell’Adriatico, in quella zona cuscinetto tra ‘cortina di ferro’ e Nato.
Le letture con le interpretazioni dei fatti tramite lo sport restano le più godibili, perché, si sa, lo sport che è aggregante per definizione tende a essere un eccezionale termometro della società. Riesce a manifestare con anticipo quello che accade in un microcosmo, perché ne coltiva e ne macera gli animi. Espellendoli a volte con violenza, come accaduto negli anni ’90 nell’ex Stato retto da Tito. Ecco, Sergio Tavčar, pur senza volerne fare un saggio che riavvolge il tragico nastro della memoria, ci consegna un libro diviso tra diario, pamphlet e vademecum per rinfrescare i ricordi, arricchiti da riflessioni e aneddoti personali. Abbasso il politically correct che va tanto di moda oggi, evviva quelle omologazioni –senza toni offensivi, intendiamoci- che accorciano la comprensibilità delle etnie: se si va dalla frase dialettale “Tasi ti, che te son italian!” sottolineando la distinzione tra ‘triestin, furlan e talian’, relegandoci a un ultimo posto che a Trieste ha un profondo significato, arriviamo anche a comprendere meglio l’esplosività di team sportivi unici per capacità tecniche, caratteriali e atletiche. Nel basket e nel calcio, la Jugoslavia è sempre stata una squadra di autentici marziani, perché formata dai lavoratori sloveni, geniali croati e farfalloni serbi, un mix micidiale che straccia primati nell’universo. Tavčar tra politica, costume e società, abbraccia la materia che sa raccontare meglio, lo sport. Così in quello spaccato drammatico che vivono i popoli tenuti uniti da Tito, ecco affiorare il ricordo dell’incontro tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado del 13 maggio 1990, con autentica guerriglia fuori e dentro il campo tra le opposte (violentissime) tifoserie, ma qui Tavčar va chiaramente oltre, leggendo nelle pieghe degli eventi accaduti quel potere profetico riconosciuto allo sport. I prodromi della guerra? Prima, ammette Sergio, trovate nelle divisioni ideologiche e comportamentali tra colleghi durante il Mondiale di basket in Spagna nel 1986. Poi, stralci da laurea ad honorem sono quelli che abbracciano la descrizione di come gli sportivi balcanici eccellendo nel gioco di squadra con la palla abbiano come finalità ultima quella di ridicolizzare l’avversario, forse per umiliarlo forse per dimostrare la sua superba superiorità, mostrando un certo ‘funambolismo irridente’ unico. Certo, c’è la guerra, e qui affiorano le nostalgie per la Sarajevo multiculturale e multietnica, oggi ricordo sbiadito; c’è il monte Trebevic, quello degli snajper; c’è l’indifferenza dei vicini di casa, soprattutto.
Godibile anche l’apertura e la chiusura del giornalista Marco Ballestracci, ‘uomo di frontiera’ anche lui, che ammette con quel candore e pudicizia di chi è innocente che noi italiani -e occidentali- abbiamo sempre guardato a Est con una certa diffidenza, nata per ragioni storiche al di là delle affinità mediterranee con alcuni popoli di quei territori.
Personalmente, pur ammettendo senza ipocrisia a posteriori le stesse (colpevoli) diffidenze di Ballestracci, ho sempre guardato con incantato stupore quella spavalderia intrisa di eccelsa tecnica che campioni come Drazen Petrovic sciorinavano con estrema naturalezza in campo, al pari di fuoriclasse calcistici come Stojkovic e Prosinecki, autentici maniaci del dribbling. Quello è sport, è gioia di vivere, di confronto, di competitività, di socializzare, probabilmente anche ‘uno strumento d’identità’, come scrive Sergio. Poi, ci sono le tragedie di Sarajevo, Mostar, Vukovar, Srebrenica. Quelle sono vergogne. E appartengono a tutti.

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