domenica 5 Maggio 2024
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Storie di balordi senza spiragli di speranza

C’è poco da fare. Il nero resta il genere che meglio rappresenta la realtà. Affrontare la sua genesi è affondare i colpi nelle radici della storia dell’uomo. È conflitto sociale, lotta di classe, è passione, è coacervo di sentimenti autentici, duri, crudeli. Così, alla Semana Negra, alla sua 36ma edizione, il film che più ha rappresentato questo senso dell’inquietudine è stato ‘El Testaferro’, una pellicola poliziesca del regista Carlos Martínez, tratto dal romanzo ‘El Gordo, El Francés y El Ratón Pérez’, opera d’esordio di Raúl Argemí. E da qui dobbiamo partire, dai temi e dalla poetica dello scrittore argentino che ben si è fusa con l’arte cinematografica di Martínez. Ma partiamo dall’inizio, da quella comunione spirituale prima ancora che estetica che ha legato e lega i due artisti. Se scrivi di due artisti argentini con i capelli bianchi e le rughe profonde ma animati da un evidente spirito vitale non puoi non capire che i due hanno nell’anima solchi difficili da coprire perché nati (ed esplosi) con le vicende della dittatura della junta militar. È lì che è necessario battere per comprendere il legame tra i due oltre ovviamente il loro (eventuale) messaggio da lanciare al pubblico tramite i linguaggi artistici di cui dispongono.

“Ci siamo conosciuti in carcere, al Devoto. Abbiamo condiviso lunghi momenti di detenzione, militavamo nello stesso gruppo rivoluzionario ma ignoravamo l’esistenza e il nostro coinvolgimento” attacca Raúl, classe 46. Il gruppo era l’Ejército Revolucionario del Pueblo, acronimo di ERP, l’organizzazione guerrigliera argentina di ispirazione marxista e guevarista attiva durante gli anni ’70 in aperto contrasto con un governo illiberale, antidemocratico e successivamente terroristico, il braccio armato del Partido Revolucionario de los Trabajadores (PRT). Siamo nel 1975, Raúl è nell’ala dura del carcere di Buenos Aires perché ha sparato e ammazzato il giudice Jorge V. Quiroga a La Plata, “non è vero –ci tiene a sottolineare-, non l’ho ucciso io. Mi hanno incolpato dell’unico omicidio che non ho commesso” ammette tra l’ironico, il sarcastico e il divertito. Ecco, la cruda ironia, soprattutto verso se stessi, per sopravvivere. Sono tempi bui, è l’aprile del ’74, si vive il traballante governo della presidente Maria Estela Martinez, dopo la morte di Peron. E nella Capital Federal ha epilogo la storia da rivoluzionario per Carlos Martínez, classe 51: è in strada con un compagno, vengono fermati da due poliziotti in borghese, Carlos estrae il revolver ma gli sbirri sono più veloci, un colpo gli trapassa il fianco rovinandogli l’intestino, un altro gli lascia un ricamo sul collo e un altro ancora sul capo. Sembra il replay della storia di ‘Operación Masacre’ raccontata da Rodolpho Walsh, perché anche questa è tremendamente reale. Così, i due si conoscono al centro di detenzione Devoto, diventano amici e fratelli, “ma ristabilirsi fisicamente non è stato facile. Per il dolore sono stato imbottito di morfina, si alternavano momenti di interrogatorio con quelli ospedalieri: un tormento” racconta. È il 1975, dicevamo: è lì, in quegli anni, che vivono l’orrore della dittatura militare di Videla, ma resistono in carcere, tifano l’Albiceleste tra le sbarre, con l’altoparlante che diffonde le gesta della squadra di Menotti che sale sul tetto del mondo conquistando nel 1978 il titolo nel comodo salotto di casa. “Mi ricordo di un tizio di Mendoza che tifava contro i nostri giocatori. Noi invece eravamo autentici hincha, perché l’Argentina in quel momento rappresentava il popolo” continua Carlos. “Non giudicateci, ma una cosa è la testa un’altra il cuore: in quel momento eravamo tutti futboleros” aggiunge Raúl, precedendo l’osservazione che i successi della squadra di calcio erano diventati un formidabile strumento di propaganda del potere militare. Sono anni non semplici quelli, ma seppure nell’ala degli irrecuperabili del carcere, Raúl e Carlos sono prigionieri politici intoccabili: il Washington Post e Le Monde sanno che sono detenuti, non possono essere fucilati e nemmeno sparire con i voli della morte attraverso la desaparecion, ma neppure poteva esserci la vendetta trasversale nei confronti dei familiari, come talvolta avveniva. “Se sapevamo quale potesse essere il nostro destino? Certo che sì. In carcere si sapeva tutto, dalle torture ai desaparecidos, ma non crediate che sui voli della morte l’Argentina abbia una primogenitura: anche Hitler nelle annessioni in Europa e i francesi durante la guerra d’Algeria adottavano queste pratiche” continua Raúl. Facile che poi i ricordi si sovrappongano, con le violenze da sempre perpetrate da parte dell’Esercito, “c’era impresso ancora il colpo di stato del giugno 1966” racconta ancora Raúl, col terrore dei colpi di mitra e di pistola nelle vie di La Plata, “con la processione di camionette dell’esercito in un continuo andirivieni dal carcere, che stava al centro della città. Impossibile non sapere” scuote la testa. Anzi, guai a chiamarli potere o istituzioni, “perché erano criminali e delinquenti, che agivano contro la Costituzione e il popolo” dicono entrambi. L’unico modo per contrastare l’esercito restava l’uso delle armi, la violenza l’unica forma di dialogo ammesso: “non c’era possibilità di indire libere elezioni. Noi rivoluzionari riprendevamo le armi ai militari, perché le armi erano del popolo, è lui che le pagava, quindi erano le sue, non potevano essere utilizzate contro di lui. Quindi noi le usavamo contro di loro” ragiona Carlos in un sillogismo aristotelico che non fa una grinza. Oggi però le cose sono cambiate: seppure tra forti scossoni economici l’Argentina percorre il tracciato della democrazia, dal ritorno di essa con l’elezione del presidente Alfonsìn quella che infuria resta la battaglia culturale: “io continuo a farlo con il cinema, Raúl con la scrittura” specifica Carlos. Raúl se ne sta in carcere dal 1974 all’84, anno della fine della dittatura militare che coincide con la sconfitta argentina nelle guerra delle Falkland/Malvinas (“las islas Mavinas son argentinas” specificano nemmeno ce ne fosse necessità), Carlos esce prima, nell’81, ma resta in libertà vigilata. Diversa è anche la formazione dei due: Carlos proviene da una piccola famiglia borghese, “in casa c’erano librerie e librerie, ma mancavano libri di autori contemporanei e sul Comunismo. Io acquistavo libri quando mio padre e la scuola non riuscivano a darmi risposte, poi ho cominciato a frequentare Economia e a militare nell’Erp mentre in carcere mi è tornata utile la pratica della ginnastica, perché riuscivo a esprimermi col linguaggio del corpo, immaginandomi così già le scene di un eventuale film”; Raúl invece abbraccia da subito il sacro furore dell’arte teatrale, è innamorato di Salgari, “tanto che divento antimperialista leggendo Sandokan, poi in carcere m’innamoro di Dumas e del suo conte di Montecristo. Quando scrivo riesco anche a essere tollerante –sorride mentre si accende l’ennesima Marlboro blu-, il teatro prima e la narrativa dopo credo siano stati un percorso quasi naturale. È inevitabile che racconti di storie di violenza e di morte con protagonisti persone umiliate dalla vita, forse non ne sarei capace di raccontarne diverse, però non chiedetemi se nei miei romanzi ci sono messaggi particolari, non ho questa supponenza, il lettore non è così stupido da avere necessità di una morale, legge una storia e sarà lui con la sua intelligenza a farsi una propria visione. Io faccio lo scrittore non lo psicanalista, mi limito a far ruggire una storia, non sono un profeta che lancia messaggi”. E così nasce il primo romanzo, quel ‘El Gordo, El Francés y El Ratón Pérez’ da cui Carlos ricava questa pellicola che è stata presentata in anteprima alla Semana Negra di Gijón e che presto potrà avere facile penetrazione in Spagna, Europa e America Latina. Una storia torbida di soggetti torbidi in una torbida provincia argentina, con tre balordi che architettano un piano per sequestrare a scopo estorsivo la bella moglie di un imprenditore ricco e sfacciato. È il 1997, poi seguiranno romanzi dai titoli evocativi, come ‘Patagonia ciuf ciuf’, ‘L’ultima carovana della Patagonia’, ‘Los muertos pierden siempre los zapatos’ e ‘Retrato de familia con muerta’.

“La storia di Raúl mi ha conquistato sin dalle prime battute di lettura –ricorda Carlos- più procedevo più mi immaginavo le scene. E tutto questo in una notte. E ora eccoci qui”. A differenza di Raúl però qualche messaggio Carlos intende lanciarlo con le sue opere, “ma sono valori, io non pretendo di insegnare, non sono un professore, posso accompagnare lo spettatore”. Inutile chiedere di quali valori parla. Sono quelli che lo hanno fatto reagire a una dittatura, gli hanno dato la forza per resistere in carcere e per trasferire agli uomini messaggi di pace, rispetto, libertà e democrazia. Valori che appartengono alla natura dell’uomo. Eppure in tutta questa sofferenza, in questa frustrazione, in questa autoironia, in questo sarcasmo, in questa vita di speranza c’è spazio ancora per sapere cosa è la verità per loro. “Se lo sapessi sarei Dio” taglia corto Raúl. Invece Carlos ricorda una pellicola in cui è direttore, si intitola ‘Rosa rojas rosas’, dove un vecchio poeta è a tavola con dei giovani intellettuali, “si rimpallano il quesito se esista o meno, poi si arriva alla conclusione che la verità si può solo incontrare nel buco del culo di un flautista pazzo che suona una melodia incomprensibile”. Ecco, è come voler spiegare la vita.

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