lunedì 6 Maggio 2024
HOME > PALLONI GONFIATI > La vita è un continuo sorprendente contrappasso. Da prendere a calci

La vita è un continuo sorprendente contrappasso. Da prendere a calci

Il calcio resta tra le cose frivole quella più seria. Per citare Ennio Flaiano e restare nell’ambito del grottesco. Se poi vogliamo aggiungerci anche un pizzico dissacrante potremmo sempre utilizzare un monito sibilato tra i denti da parte degli ex jugoslavi: si può cambiare partito, moglie, religione, fronte militare ma mai la squadra di calcio.
Così, il calcio resta tra le cose frivole quella più seria: si nasce tifosi di una squadra e di una città ma poi le traiettorie della narrativa ti portano altrove. E capisci che la vita è un continuo contrappasso.
La vita è talmente imprevedibile che frantuma anche codici scavati nella roccia. Saranno le rughe e i capelli bianchi però la maturità ti porta anche a confrontarti con quello che non chiami più sorpresa, anche quando ti coinvolge emotivamente.
Ho sempre amato il calcio. Sì, certo il bel gioco, ma ho apprezzato anche e soprattutto gli aspetti sociali, i fenomeni che abbracciano i contesti del costume, capendo presto che sono una fantastica arma di seduzione di massa, capace di accorciare le distanze di comunicazione e un facile grimaldello per accedere ovunque con sorrisi empatici.
Però, essendo fragile, e quindi anche tifoso, ho sempre posseduto le mie personalissime tare. Sono un fervente tifoso romanista, influenzato probabilmente nell’infanzia da mio padre ma anche dalla maglia giallarossabianca con un’arrogante lupa stilizzata; poi sono sempre stato attaccatissimo alla mia città, Latina, ergo tifoso dei nerazzurri, che, dopo anni anonimi in serie D e C, nella stagione 2013/14 arrivarono a un alito dalla serie A perdendo la finalissima contro il Cesena. Ovviamente, sono stratifoso anche della Nazionale e mi ritengo, come altri 59 milioni di italiani, un allenatore (da divano) provetto.
Quindi, possiedo dei forti limiti. Me lo ripete sempre la mia compagna che tifare e guardare le partite di calcio è un mio grande limite. Se ci rifacciamo alla filosofia trascendentale di Kant però il concetto di limite non ha un’accezione così negativa, appartiene a una sfera, quella umana, già di per sé imperfetta in quanto tale. E no, non ho una natura divina. Del resto, anche Aristotele parlava di limite accennando alla parola ‘peras’, cioè ‘perimetro’, relazionato all’essenza di una cosa, detta ‘eidos’. Il limite, così, concede forma alla materia, circoscrivendola nello spazio-tempo e dandogli una sua identità. Senza limite non avremmo forma e senza forma non avremmo quindi conoscenza. Quindi, il limite dà forma al mondo, con i suoi perimetri. Quello che spaventa l’uomo è piuttosto l’infinito (restando in ambito greco, tò aprirono, cioè senza confine): il fatto di non poter essere misurato attrae e terrorizza, come se fosse una voragine da cui tutto ha avuto inizio e dove tutto può essere ingoiato e tornare in nome della fine.
Tutto questo pistolotto filosofico, ovviamente, per essere indulgente rispetto a quello che sto per scrivere.
Ma partiamo dal limite. Da tifoso della Roma ho sempre cullato il sogno di assistere a un Lazio-Juventus in cui le due squadre se le davano di santa ragione, con talmente tanta foga che l’arbitro si sarebbe visto costretto a sospendere la fine delle ostilità per rimandare il giudizio al tribunale sportivo, che, dopo aver passato in rassegna la vergognosa pugna tra i 22 in campo, avrebbe espresso la sentenza di uno 0-3 a tavolino a entrambe le squadre. Nel tempo recente si è aggiunto il Frosinone in serie A. Chi mastica calcio di un certo livello non fa fatica a capire la rivalità tra Roma e Lazio e tra Roma e Juventus, chi invece è un passionale sa bene la rivalità tra i capoluoghi del Basso Lazio rappresentati da Latina e Frosinone. Quindi, alla agognata e desiderata rissa tra Lazio e Juventus si è aggiunta anche quella tra Lazio e Frosinone e tra Frosinone e Juventus. Chiaro, che siamo nello spazio dei sogni mostruosamente proibiti, quelli alimentati da un’adolescenza inquieta e pruriginosa. Adolescenza avvilita dai Mondiali 90, quelli giocati a casa nostra, quelli persi in semifinale dalla sfavillante Italia di Azeglio Vicini contro l’Argentina, brutta copia di quella che aveva vinto i Mondiali di Messico 86.
Arriviamo all’infinito, ora. Infatti, il destino disegna trame beffarde e architetture narrative ciniche. L’Argentina da tempo è diventata una sorta di seconda patria, sia come identità che narrativa. Il mio personaggio seriale è il detective José Cavalcanti, italo argentino che vive a Buenos Aires, anarcoliberista e politicamente scorretto, presto tradotto in spagnolo anche per gli amici lettori del SudAmerica. Per scrivere mi reco dall’altra parte dell’oceano, dove prendo spunti e l’empatia è al minutaggio. Così, l’antipatia verso l’Argentina è stata mitigata nel tempo, metabolizzata anche dopo quella maledetta partita persa ai calci di rigore e oggi è amore autentico.
E ti ritrovi per insana ironia della sorte anche a dirigere una testata giornalistica di un’agenzia di Frosinone, che ti manda a seguire le partite degli odiati cugini. E questi ti vincono il campionato di serie B e nella stagione successiva (cioè quella odierna, anno di grazia, meglio di disgrazia, 2023/24) hanno la chance di stappare una bottiglia di bollicine messa in frigo nel caso di una storica permanenza nel massimo campionato nazionale.
Sì, lo ammetto, quella bottiglia l’ho messa in fresco io un anno fa in un bar di Frosinone.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *